La maggioranza silenziosa a tavola, il kitsch e il mito della caverna di frutta intagliata.
Creatività oscena, ristoranti poco originali come un “bar di periferia rifatto in wengé che cerca di imitare Armani Nobu” e critica gastronomica del discount
Mangio e scrivo di ristoranti che fanno ricerca, avanguardia, tradizione contemporanea, da chef che girano il mondo, stellati che cucinano frattaglie, fermentano, servono menù degustazione. Vivo pure a Milano, dove nel bene o nel male, molte cose accadono prima di altre parti in Italia e si inseguono le nuove aperture, di qualunque cosa. Vivo, viviamo in molti fra quelli che leggono Materia Prima, in una bolla, una autosuggestione di massa confermata da bias cognitivi e algoritmi. Una bolla dove è facilissimo dimenticarsi del Paese reale, della maggioranza silenziosa della ristorazione. Posti amati dal quartiere e dai trapper, come Pupiricchiello (su cui ho scritto un pezzo su Vanityfair.it), o una nuova generazione di locali che hanno tradotto tutto ciò che è stata tendenza dell’alta cucina per farla pop.
Esperienza gourmet con le migliori materie prime fra tradizione e innovazione
Bei ragazzi con una tuba in testa flambano in sala dessert. Affettano enormi cotolette sul gueridon, affettano in sala del prosciutto e poi… imboccano gli ospiti. Musica, luci, suoni, trenino. A Milano uno dei fenomeni gastronomici underground - nel senso che non è stata rilevata dalla “stampa di settore” - ha il nome di Pazzo Restaurant. La cena è uno show, un po’ “esperienza immersiva con luci e suoni” un po’ la trasposizione “tutto in uno” di un menù contemporaneo degli ultimi 10 anni. Li osservo su Instagram: gamberi rossi di Mazara, plateau di crudi, “risottino” mantecato, tataki di tonno al sesamo, drink e piatti serviti con provette o finiti in sala dai camerieri. Si definiscono “pazzi”, pazzi proprio come Crazy Pizza dove roteano pizze volanti al ritmo di musica e sotto un cielo di stelline scintillanti, tre volte a sera. Mettono in scena uno spettacolo, saltano paccheri in sala e sferificano cose.
Da Zizania si va a fare l’aperitivo, il “più pazzo di Milano”, con drink fumanti decorati da marshmallow e finger di sushi con ingredienti italiani, AKA quello che fa il re dei cocktail Carlo Comini al Nottingham Forest di Milano e il Susci all’italiana di Moreno Cedroni. Questo per me, per noi, una cosa originalissima per i ventenni che ci vanno e che si divertono un sacco, e sono felice per loro. Come sono felice per chi finalmente si diverte al ristorante quando esce a cena al Pazzo Restaurant. Va bene così, non si farà male nessuno, anzi si divertono in molti.
La parodia del maglioncino ceruleo
La cosa che mi fa pensare è che però quella è la parodia dell’alta ristorazione, è un mix and match di cose messe insieme e senza citare le fonti. E qui ripenso alla solita scena de Il Diavolo Veste Prada sul maglioncino ceruleo finito nel cesto dei saldi. Va tutto bene finché non me la valorizzi come creatività. Cioè quello che fanno pure i ristoranti fine dining da 180€ a menù. Mi vendono il gusto ma anche le idee, ed è tutto ok basta che non siano di altri.
Recentemente a cena da uno chef dalle velleità stellate mi sono sentita dire che lui non voleva fare “il solito” fine dining, peccato mi avesse servito idee trite e ritrite e neanche così bene eseguite. Ma io ero l’unica in sala perplessa, gli altri sembravano tutti felicissimi e sorpresi ad ogni trovata, che era più o meno una trovata di altri. Ora la solfa da vecchio trombone che rivanga il passato e vuole spiegare la vita ai gggiovani d’oggi è dietro l’angolo. Ho 43 anni non sono il target di un posto che serve drink alla fragola fumanti ed è sbagliato giudicarlo con i miei occhi come se dovesse piacere a me, ma la storia serve per andare avanti con il senno di poi, mica per tornare indietro. Barbero docet.
Il mito della caverna e la frutta intagliata
Anni fa avevo analizzato il caso della frutta intagliata. La cosa più kitsch dell’universo, la più cheap, una roba da navi da crociera, da buffet sfigato, da poverata senza gusto alcuno. Lo credi finché non vedi queste opere da campionato nazionale. Sono bellissime, sono fatte benissimo, frutto di una manualità indiscutibile. È che noi abbiamo conosciuto solo la versione croceristica, quella da all you can eat. La copia della Gioconda disegnata da tua zia al corso di pittura, non esattamente un capolavoro anche se tutti in famiglia le hanno fatto i complicmenti. La frutta intagliata del villaggio turistico è l’ombra in una caverna, per citare il mito di Platone.
Marchio di fabbrica, un’oliva liquida che sembrava un’oliva!
Chi si sorprende davanti ad una oliva sferificata servita in un ristorante a Scanzorosciate è felice, lo racconta agli amici. Non lo sa cosa sta mangiando, forse non lo sa manco il ristoratore, speriamo almeno lo sappia lo chef che l’ha visto su qualche libro o su Instagram, dove spopolano le robe che andavano anni fa tipo le olive o la pastina in bianco con il formaggino. Sono tutti in buona fede, pure il cuoco che ha pensato fosse una buona idea e dopo vent’anni voleva divertirsi un po’ e al posto del Lego ha comprato il kit del piccolo chimico. È uno che legge, si informa, di antipasto serve un cappuccino di funghi che in zona amano tutti, per primo un risotto alle rape rosse e zola che è il suo “piatto forte” (signature non lo usa). Non lo sa mica che dovrebbe fare una citazione, non è in mala fede, anche se potrebbe infilarsi così in una diatriba fra marchesiani, fronda alajmista e materialisti bartoliniani. Pensa siano “piatti”, come lo spaghetto al pomodoro, e forse ha ragione lui, sono piatti oramai parte del nostro patrimonio gastronomico. Mette lo zafferano con la liquirizia, rifà delle ricette, ci aggiunge una prezzemolata che è il suo tocco o una riduzione al balsamico. Al 99,9% sono molto peggio dell’originale ma tanto non li ha mai assaggiati e non lo saprà nessuno. Va tutto bene così sono nella caverna della gastronomia contemporanea e guardano fuori attraverso… quello che scriviamo e che seminiamo in giro. Per fortuna esistono al mondo cose più importanti di tracciare la filologia di una pasta in bianco ma cosa seminiamo è il mio cruccio ultimamente.
Toast ripieni di pasta in bianco alla brace
Fra 10 anni penseranno che mangiavamo toast ripieni di pasta in bianco cotti alla brace, dice scherzosamente Marco Ambrosino all’inizio dell’episodio del mio podcast, MORSI. Le tracce di quello che viene scritto e raccontato oggi andranno a costruire la storia però, non quella con la S maiuscola dei grandi fatti ma quella sociale delle piccole cose. Quando uno storico del 2224 scriverà un libro sul Milllennium Medioevo (noi), penserà che la roba più rilevante erano i pop-up degli chef alle Maldive che cucinavano a bassa temperatura le ricette di nonna. Non lo so che cosa sia davvero importante, che cosa sia giusto, però so che cosa è davvero inutile se non dannoso: l’inquinamento di notizie in cui uno deve finire a pescare come un ago in un pagliaio.
Il pericolo del kitsch
Ho la fortuna di conoscere Alberto Cavalli, impegnato nella promozione dei mestieri dell’arte, curatore dell’evento veneziano Homo Faber e professore di bellezza italiana al Politecnico di Milano. La prima volta che l’ho intervistato mi aveva lasciato senza parole (cosa che non mi succede spesso). Sta dedicando la vita alla salvaguardia del made in Italy (quello di sarti, incisori, orafi e restauratori che fanno cose incredibili nel silenzio più totale). È un radicale molto chic e non mi aveva parlato mica del pericolo della contraffazione cinese o dell’Italian sounding, ma del pericolo del kitsch. «Tutto ciò che sembra ma non è, ciò che è surrogato, non autentico ma spacciato come tale». Non ostentatamente camp e non ridicolmente trash, ma kitsch perché subdolamente difficile da riconoscere e spesso accettato inconsapevolmente. «Nel momento in cui si spaccia qualcosa per un’esperienza artistica ma quell’esperienza è stata in realtà abbondantemente premasticata, di artistico non ha più niente. È un simulacro, il contrario dell’originalità» mi aveva detto. Parlava di ricami, pitture, decori, ma senza saperlo parlava anche di cucina. Ora che ci penso, avrei proprio voluto sentire un incontro al Salone del Mobile fra Tommaso Labranca e Alberto Cavalli sul perché non possiamo non dirci brianzoli e sui “bar di periferia rifatti in wengé che cercano di imitare Armani Nobu”.
“Il kitsch disturba una persona dalla sensibilità evoluta ma, al tempo stesso, induce sensazioni piacevoli in coloro che hanno meno sensibilità”. William I. Miller.
Creatività è una parola oscena diceva Enzo Mari
È un termine abusato che parte dal presupposto che l’idea geniale balena per magia nella mente del creativo di professione (che in fondo non si capisce bene che cosa faccia). Creatività invece è un metodo per risolvere problemi partendo da diversi stimoli, lo diceva il padre dell’intelligenza artificiale, Herbert Simon. Saper creare è ciò che ci distingue dalle macchine quindi: l’uomo grazie al pollice opponibile può inventare e creare in modo consapevole, a differenza delle api operaie o di un uccello che fa il nido. La creatività è quindi instrinsecamente autentica, mentre la tradizione diventa un deja vu, e se citata inconsapevolmente pure kitsch. Le olive sferificate da Adrià oggi sono tradizione, quelle replicate nel ristorante lungo la vigevanese sono kitsch. Il genio che ti fa il cetriolino, la cipollina, il friariello o la fragola sferificata? Non ha nulla di creativo, è il contrario della creatività, è un tarocco. Però in centinaia di locali in Italia i ravioli aperti, i cappuccini di funghi, i vasetti di terriccio edibile con le carotine piantate dentro, o per reference più contemporanee e socialmente ancora accettate, le candele di grasso, i teschi di anatra, il lardo pestato a forma di faccina di maialino e così via sono a vari livelli spacciati come creatività. Con il tempo il tortino caldo dal cuore morbido e il risotto alle rape rosse sono diventati nuovi classici e forse succederà anche alle zampe di piccione ancora piumate, diventeranno dei simulacri. Stavo scrollando delle foto sul cellulare dell’anno passato e mi sono resa conto di una gallery di cloni, e chissà di quanto altro non mi sono resa conto e che mi era sembrato originale…. Per capirci, in questi giorni sento osannare la canzone noiosa di Angelina Mango, ma io sento solo una Rosalia che non ce la fa - certo la senti se conosci Rosalia.
Brevettare il cibo
Ho scritto quest’anno un pezzo sui brevetti, le ricette e le citazioni gastronomiche e si delinea abbastanza bene il confine fra cosa si possa o non si possa fare, con si debba creditare, cosa sia proprietà intellettuale e quanto i brevetti servano anche per evolvere. Per fortuna il tribunale del food non esiste, anche se c’è la fila per candidarsi a boia e in molti ci si autoproclamano. Non mi stavo autocandidando, mi sto solo chiedendo se a volte non bisognerebbe suggerire di citare le fonti, o di fare qualcosa di proprio, anche con il rischio di sbagliare. Anche se nel mondo dei seguel e dei remake di tutto, ti viene davvero da dire che non ci sia più nulla da inventare.
Resto convinta che il segreto della creatività non sia nascondere le proprie fonti.
Due statistiche e @supermercatichepassione
Secondo l’Eurispes nei suoi dati 2023, il 60,5% degli italiani rinuncia più spesso ai pasti fuori casa e il 61% ha sostituito le uscite in pizzeria o al ristorante con le cene a casa con gli amici. Il 56,7% si porta il pranzo in ufficio o all’università da casa per ridurre le spese. L’Happy Hour degli anni Novanta del Cap Saint Martin o del Royalto, che faceva tendenza fra i giovani come me, trent’anni dopo si chiama apericena, piace alla terza età e le ricerche di ricette per farlo a casa registrano un’impennata. Mangiamo più a casa ma negli ultimi due anni facciamo molta più spesa nei discount e compriamo più private label rispetto ai prodotti di marca, quindi forse la critica gastronomica (quella old style, che giudica i piatti) più utile è quella di Alex e Miriam che degustano il sushi della LIDL o le olive ascolane della Conad su @supermercatichepassione. Online le ricerche di trattorie sono 57 volte superiori a quelle di ristoranti Michelin.
Cose che ho scritto
Nel mentre ho scritto il mio diario sul gennaio non alcolico per Vanityfair.it
Perchè chiedere di leggere gli ingredienti della brioche della tua pasticceria su La Cucina Italiana
Perchè il filetto di pollo vegano è una carrozza a motori nella storia dell’evoluzione del cibo, citando Ford. Per La Cucina Italiana
La solita minestra anzi no alla milanese. Dichiarazione di intenti di un menù. Per La Cucina Italiana.
Grazie! Diciamo che era un appello all'onestà intellettuale, non voleva essere una critica ai clienti
Posso dire? La tua migliore uscita su Materia Prima. Sei stata un faro su un argomento che è un mare magnum, su cui si hanno sensazioni ma su cui mancava uno scritto così ben fatto.
Mi fa sorridere il fatto che il kitsch ancora oggi molti lo associano agli anni ‘80, decade degli eccessi perché di soldi ce n’erano (e anche tanto), mentre ora il kitsch esplode nel suo senso più negativo e nichilista, il trash, in un momento in cui i soldi vengono a mancare. Viviamo in un baraccone.
Grazie Margo.